15 Mar 2022

Il silenzio, le parole, un canto

Non si possono scrivere parole qualsiasi, oggi.

Non ora che la rauca voce della guerra ha cominciato una nuova narrazione sulle nostre terre. Nostre, perché l’Ucraina non è così lontana, meno di una giornata di auto. Nostre perché uomini e, soprattutto,  donne ucraini sono fra noi e hanno fatto delle nostre case la loro casa. Nostre, perché è nostra ogni terra, tenacemente e fragilmente libera, quando è minacciata dalla violenza di un dittatore.

Non si possono scrivere parole qualsiasi, oggi.

E non vogliamo avventurarci in analisi geopolitiche che altri potranno fare meglio di noi.

Vorremmo scrivere qualcosa che assomigli un po’, come un’eco, al silenzio dei bambini della scuola primaria, che, la mattina del 24 febbraio, si sono avviati alle classi senza una parola, appunto.

E nello scrivere, d’altra parte, stiamo usando parole. Ma che cosa abbiamo di diverso? Noi che facciamo delle parole la materia del nostro lavoro? Noi che, attraverso esse, possiamo educare e coltivare il desiderio della pace, della giustizia, della libertà?

Ammiriamo chi organizza convogli di aiuti e parte, chi apre la porta di casa e accoglie, chi scende in piazza per esprimere solidarietà. E tutto questo facciamo e faremo, per quanto riusciremo.

Intanto però, come ogni giorno, continueremo la nostra ostinata guerra per far crescere uomini liberi e pacifici.

Scrive Lev Tolstoj ne I Racconti di Sebastopoli:

“Uno strano pensiero: che cosa accadrebbe se una delle due parti contendenti proponesse all’altra di allontanare dal suo esercito un soldato? Poi mandarne via un altro, da entrambe le parti, poi un terzo, e un quarto, e così via, fino a che non rimanesse che un solo soldato in ciascun esercito. A questo punto (…) si affrontino pure questi due soldati, uno cinga la città d’assedio, e l’altro la difenda. Questo ragionamento può parere un semplice paradosso.”

Un paradosso, appunto. Ma che prendiamo come provocazione per una riflessione tutt’altro che paradossale. La guerra, anche la più estesa, prende origine nel cuore del singolo uomo. Là dove il mistero del male è tanto oscuro quanto evidente. 

Là dove Abele e Caino si scrutano a vicenda. E hanno un volto così simile al nostro. Entrambi.

“T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

quando il fratello disse all’altro fratello:

«Andiamo ai campi». “

(Uomo del mio tempo, Salvatore Quasimodo)

E ogni guerra, anche la più feroce, potrà trovare riappacificazione in quello stesso cuore.

Non sottovalutiamo il ruolo dei governi e delle organizzazioni internazionali, non relativizziamo il valore dei trattati e degli accordi. Ma sappiamo che sugli scranni dei governi e al tavolo dei trattati si siedono uomini e donne che hanno lo stesso nostro cuore, con lo stesso mistero e la stessa nostalgia.

Ci lasciamo con una canzone. I servizi giornalistici dalle città ucraine hanno richiamato alla mente dei più vecchi immagini simili di trent’anni fa: un’altra città, altre case distrutte, le stessa povera gente a morire e a piangere.

C’è un tempo per mantenerti distante 

un tempo per guardare altrove 

c’è un tempo per tener giù la testa 

per proseguire la tua giornata.”

È una canzone amara e malinconica, in cui speranza e disperazione si contendono la scena. Però arriva a cantare queste parole:

“Dici che il fiume

Trova la via al mare

E come il fiume

Giungerai a me

Oltre i confini

E le terre assetate

Dici che come fiume

Come fiume

L’amore giungerà.”

E anche noi vogliamo cantare.